In diverse occasioni, abbiamo avuto modo di evidenziare l’importanza della fase che si sta aprendo in Europa sulla riforma della nuova Politica Agricola Comunitaria e sugli obiettivi che la Commissione si è prefissata sulla biodiversità e per una agricoltura sostenibile.
Siamo convinti che tale opportunità dovrà vedere anche noi cacciatori, pienamente partecipi, anche in sede europea grazie al lavoro di FACE, nella complessa discussione che si sta delineando tra i portatori d’interesse e gli stati membri sul futuro di un settore primario quale quello agricolo e per i riflessi che si possono generare sul territorio agro-silvo-pastorale e sulla fauna selvatica.
Le risorse economiche sono ingenti.
Il settore agricolo conterà su circa 50 miliardi di euro per i prossimi sette anni destinati alla cosiddetta “Transizione verde” che accompagnate ad altre risorse come quelle sul Green Deal, rappresenteranno una occasione forse irripetibile, per assicurare sostenibilità e competitività al modello agricolo Nazionale, così come affermato proprio oggi dal Ministro Patuanelli alla Commissione Agricoltura del Senato.
Non sempre però, principi come “Transizione ecologica” o “Sviluppo delle energie rinnovabili” portano in assoluto conseguenze positive dal punto di vista faunistico. Al contrario, in certi casi, si possono produrre misure e pratiche fortemente negative per numerose specie selvatiche e una progressiva perdita di biodiversità.
Ciò non significa certo contrapporci preconcettualmente alla diffusione delle energie rinnovabili quanto evidenziare ai cittadini, all’opinione pubblica ed alle istituzioni, come anche il punto di vista dei cacciatori può contribuire ad una riflessione seria su questioni di interesse generale.
Riportiamo a supporto di quanto sopra, due esempi di come spesso dietro al “green” vi sia in realtà ben altro.
Come ha ben evidenziato il Dott. Francesco Santilli, da anni impegnato nella gestione faunistica, in un recente post, la Germania è uno dei paesi europei che ha maggiormente puntato sulle energie rinnovabili anche in vista dell’abbandono dell’energia nucleare.
Attualmente circa il 13,5% dell'energia deriva da fonti rinnovabili.
Fra queste la quota preminente (55%) è rappresentata dalle biomasse agricole, prevalentemente mais e colza coltivate per produrre energia tramite appositi impianti come i digestori anaerobici.
Si è quindi creata una competizione per l’uso del suolo fra produzione di energia e produzione alimentare con ricadute sul paesaggio che diventa sempre più monotono e sulla biodiversità.
Per la produzione di energia si utilizzano infatti poche colture, coltivate intensivamente in blocchi, che lasciano ben poche risorse per le specie animali. Diversi studi hanno dimostrato un impatto fortemente negativo sulle specie tipiche dell’ambiente agricolo (e già in declino) come l’Allodola (Alauda arvensis).
Anche in Italia il ricorso a questa fonte energetica è in aumento con conseguenze che si possono immaginare. Una ulteriore espansione, oltre agli effetti negativi sulla biodiversità e sulle specie tipiche dell’agro-ecosistema, determinerebbe un ulteriore necessità di importazione di cereali per i quali la nostra bilancia commerciale è già in abbondante deficit.
Altro esempio è quello della proliferazione degli impianti “Eolici”, non sempre compatibili con il territorio e le esigenze conservative dell’avifauna migratoria. La battaglia che da mesi la Federcaccia di Firenze e la Confederazione Cacciatori Toscani stanno portando avanti per contrastare la nascita del futuro parco eolico del Monte Giogo di Villore in una delle più importanti rotte migratorie, nel cuore del Mugello, rappresenta un ulteriore esempio emblematico. Nei prossimi giorni si tornerà a parlarne anche in conferenza Stato – Regioni e Federcaccia e CCT hanno nuovamente evidenziato i rischi supportando le proprie considerazioni con ulteriori studi scientifici recentemente pubblicati in un recentissimo studio pubblicato nel 2020 (Schippers P, Buij R, Schotman A, Verboom J, van der Jeugd H, Jongejans E. Mortality limits used in wind energy impact assessment underestimate impacts of wind farms on bird populations. Ecol Evol. 2020;10:6274–6287) il quale osserva come le conseguenze delle turbine eoliche sulla mortalità delle popolazioni di uccelli dipenda dall'abilità della popolazione di compensare gli aumentati tassi di mortalità, attraverso processi dipendenti dalla densità. Le specie longeve con bassi tassi di riproduzione sono più sensibili ad un aumento della mortalità degli adulti e meno in grado di compensare aumentando la riproduzione, il che spiega perché anche bassi tassi di collisione possono contribuire in modo significativo al declino della popolazione o cambiamenti demografici in varie specie longeve.
Lo stesso studio sottolinea l'importanza, vista la mortalità aggiuntiva nelle specie vulnerabili da collisioni di turbine eoliche (Bellebaum et al., 2013; Drewitt & Langston, 2006, 2008; Katzner et al., 2017; Schaub, 2012) di considerare gli impatti di più parchi eolici. Ciò è particolarmente importante perché il numero di parchi eolici è in costante aumento ed è un rischio per maggiore le specie non stanziali, che potrebbero incontrare più parchi eolici durante gli spostamenti tra la loro area di riproduzione/nidificazione e foraggiamento. Ecco perchè le specie di uccelli migratori sono più vulnerabili dal momento che possono incontrare più parchi eolici durante la loro fase di migrazione. Qualsiasi stima dell'impatto dovrebbe quindi tenere conto di tutto l'accumulo di mortalità nelle popolazioni nell'intervallo annuale, una scala spaziale che rifletta i movimenti ad ampio raggio di specie vulnerabili e ad alto rischio di collisione (Bellebaum et al., 2013). Nonostante la loro potenziale importanza per valutare il vero impatto delle turbine eoliche sui livelli di popolazione rilevanti, le valutazioni cumulative vengono eseguite raramente. I dati di monitoraggio delle vittime sono spesso difficili da acquisire alle scale spaziali pertinenti e il monitoraggio della mortalità da parte delle autorità è raramente coordinato per comprendere la mortalità cumulativa in più siti (Drewitt & Langston, 2008).
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